La scrittura non è di per sé metafora, ma non può sfuggire alla costruzione di nuove storie che contengono metafore, poiché – io credo – uno scrittore che scriva con tutto il suo corpo, il suo animo oltre che la sua mente, ha accumulato dentro di sé blocchi di vita, episodi, persone, sotto forma di ricordi, di impressioni, di desideri, i libri e i fumetti letti, i film visti, la cronaca, persino i programmi televisivi. Questo accumulo io lo definivo sedimentarsi, ora lo vedo di più, paragonandolo alla terra, come un humus derivato da un sapiente sovrapporre rami, foglie, vegetali, frutta, composti organici che decomponendosi formano ricchezza, concime. E di questo materiale, nel caso della scrittura, fanno parte le metafore.
Ci sono scrittori che rifiutano di ammetterlo, di ammettere che parti delle loro opere sono metafore, può darsi che semplicemente non lo sappiano, perché quando la scrittura è passione, e non è calibrata a tavolino come una ricetta di cucina, è spontanea, non calcolata.
Che si tratti di un caso o dell’altro, sta nell’abilità del narratore comporre un’opera senza fili di sutura evidenti, un’opera completa che, a cicatrizzazione compiuta dell’unione di vari pezzi, non lasci intravvedere alcun segno, ma scorra leggera, serica, perfetta come le carni di un bambino. È questo che vedo in Risoluzione 23. Dell’autore, Efe Tobunko, non so nulla, se non la nazionalità. Come chi legge le mie rare recensioni sa, non mi interessa documentarmi, sapere chi è e cosa fa lo scrittore, dove vive, quanti anni ha, mi interessa piuttosto trovare il nucleo, il nocciolo, le tracce del cervello rettile che c’è in ognuno di noi, quel cervello che a mio parere ci impedisce – impedisce a noi scrittori – di distaccarci completamente dalla nostra esperienza di vita mentre scriviamo, e lascia le sue tracce.
Nel caso di Risoluzione 23 l’uomo prima distaccato, poi colpito e successivamente disperato, poi ancora emarginato, emarginato fin quasi a diventare un rifiuto, il rifiuto di una società che ammette soltanto la perfezione di Huxleyana memoria (Il mondo nuovo è nella mia top five e precede – non m’importa se vi scandalizzate – il 1984 di Orwell).
E poi ci sono le metafore: la metafora di un potere che pacifica usando la violenza, la metafora dell’immigrazione planetaria, oltre alla grande, principale e prima metafora del crollo delle torri gemelle- - a sua volta metafora (stavolta reale) del crollo della grande certezza statunitense, quella dell’inviolabilità, della sicurezza di non essere mai colpiti. Leggete Risoluzione 23. Non si tratta di un racconto breve, ma contiene talmente tanta succosa polpa da superare, in concentrazione e sapore, tanti volumi da mille o più pagine.
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